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Articolo di Franco Santellocco 

Africa: il dilemma degli aiuti

 

Nel recente forum di Davos, il premier inglese Tony Blair ha rilanciato l’impegno per una nuova politica di solidarietà con i Paesi poveri africani. In sostanza, la proposta del Primo Ministro britannico è quella di costituire una “International Financial Facility”, ossia un fondo che permetta di aumentare e dare maggiore stabilità agli aiuti rivolti dall’Occidente all’Africa.
Ben vengano simili iniziative, che quanto meno riportano l’attenzione dei media su un continente in cui interi popoli continuano a rischiare l’estinzione, schiacciati dalla fame, dalla povertà più estrema, da malattie degne degli incubi più macabri.
Quando si parla di drammi di tale portata, l’indifferenza è un crimine imperdonabile, e la ricerca di efficaci soluzioni è un dovere morale.
Tuttavia, poiché è del sangue versato dagli innocenti che si tratta, e del futuro di un intero Continente, ogni intervento dovrebbe essere attentamente riflettuto e ben calibrato, così da fornire una risposta vera a problemi che dobbiamo risolvere ora o mai più. L’errore, ormai, non è un lusso che ci possiamo più permettere. 
In questo senso, è da condividere quanto affermato dallo storico di Harvard Niall Ferguson, e cioè che in questo campo bisognerebbe fare tesoro dell’esperienza precedente. Infatti, il tema degli “aiuti allo sviluppo” non può certo dirsi nuovo: tra il 1950 ed il 1995 i Paesi occidentali hanno distribuito all’incirca un trilione di dollari in aiuti ai Paesi poveri. Nonostante l’imponente sforzo economico, i risultati, come dimostrato dall’economista Bill Easterly della New York University, sono stati penosi. La domanda che sorge spontanea è semplice: perché?
In larga misura, la causa dei deludenti risultati raggiunti finora dal sistema della cooperazione allo sviluppo sta nel fatto che spesso ai Paesi beneficiari mancano le istituzioni politiche, legali e finanziarie per poter utilizzare il denaro in modo produttivo. In queste condizioni, l’eccessiva attenzione che spesso i “professionisti” della cooperazione pongono sulla fase della progettualità, del varo dei singoli programmi e quindi dell’arrivo dei finanziamenti, affidando poi la realizzazione concreta all’efficienza ed alla buona fede dei Paesi coinvolti, significa spesso far naufragare tutto ben prima del prodursi di una qualunque utilità.
In realtà, gran parte del denaro destinato ai Paesi poveri dagli anni ’50 in avanti ha semplicemente preso strade diverse, spesso quelle di conti bancari svizzeri. Uno studio condotto recentemente su trenta Paesi africani sub-sahariani ha calcolato che tra il 1970 ed il 1996 l’esportazione complessiva di capitali è stata dell’ordine dei 187 miliardi di dollari; il che significa, se si aggiungono gli interessi maturati, che le élites africane al governo avevano beni Oltreoceano pari al 145% dei debiti dei loro Paesi. Gli autori dello studio hanno concluso che “l’ottanta per cento circa di ogni dollaro preso in prestito dai Paesi africani riprendeva la via dell’Occidente in forma di fuga di capitali nello stesso anno”.
Questo non significa, come a qualcuno farebbe comodo credere, che la soluzione “draconiana” debba essere quella di ridurre gli aiuti allo sviluppo e lasciare così l’Africa al suo destino. Ma significa d’altronde che non possiamo più pensare di metterci la coscienza a posto staccando un assegno. 
I grandi problemi dell’Africa, come era prevedibile e come del resto avviene per ogni problema di grande portata, devono essere risolti partendo dalle radici. In primis, da un aspetto di governance, di formazione di una cultura del buon governo e di amministratori capaci e coscienziosi ad ogni livello nelle istituzioni locali. Senza questa condicio sine qua non, ogni altro intervento resta inevitabilmente votato al fallimento.
Inoltre, ogni progetto specifico dovrebbe avere fin dall’inizio una portata di lungo periodo, ponendo grande attenzione soprattutto alla peculiare situazione del Paese ove si va a radicare, e dunque alla concreta efficacia e possibilità di realizzazione. In questo senso, certo sarebbe opportuno un maggiore coordinamento tra i vari interventi, sempre numerosi e quindi spesso caotici, sotto i minimo comune denominatore di un grande e lungimirante piano Marshall per l’Africa, a più riprese proposto anche da esponenti di spicco del nostro Governo.
Gli operatori della cooperazione allo sviluppo sapranno fare tesoro degli errori del passato, e correggere il tiro ? 
La riforma dell’ONU, una volta completata, sarà un’importantissima cartina di tornasole per dare risposta a questa domanda, e ci dirà se finalmente stia sorgendo la volontà autentica di fare qualcosa di concreto per dare al Continente africano ed alle sue genti quel futuro che spetta di diritto ad ogni essere vivente. 
Il tempo che ci rimane per correggere le storture della storia sta ormai per terminare: la risposta deve giungere, forte e chiara, senza ulteriori tentennamenti.