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Articolo di Franco Santellocco

Misure esecutive su beni appartenenti a Stati esteri. Riflessi sulla cooperazione allargata  


Ci troviamo in un'epoca in cui gli Stati intervengono sempre più spesso nell'ambito del libero mercato utilizzando strumenti tradizionalmente propri degli operatori privati.
La stessa emissione di titoli obbligazionari, divenuto metodo classico di finanziamento della spesa pubblica, altro non è che un utilizzo "istituzionale" delle opportunità offerte dal mercato finanziario.
Il problema, in questo quadro, è che se gli Stati sembrano ben contenti di intervenire nel gioco del mercato come fossero privati investitori, sono però più riluttanti ad accettarne anche i vincoli e le limitazioni.
Ecco dunque che gli operatori privati, che sempre più spesso devono rapportarsi ad istituzioni sovrane come controparti di investimenti ed accordi commerciali, si trovano nella non invidiabile situazione di dover agire in giudizio contro soggetti internazionali che oppongono a tali azioni i privilegi ad essi spettanti in virtù della propria sovranità.
Il problema fondamentale, alla base delle difficoltà che si trovano nel dare una soluzione chiara a tale questione aperta, è che il tradizionale principio di diritto internazionale generale che prevede l'immunità degli Stati dalla giurisdizione di ogni altro Stato straniero (par in parem non habet imperium) sembra oggi entrare in conflitto con la sempre maggiore ingerenza dello Stato in problemi economici e sociali.
In questo quadro, alcuni passi avanti sul piano del diritto internazionale sono stati fatti, attraverso l'accoglimento pressoché unanime del principio in base al quale la famigerata immunità assoluta, che pone gli Stati al riparo da qualsiasi azione giudiziaria sia cognitiva che esecutiva contro di essi intentata, è limitata solamente agli atti che gli Stati stessi compiono iure imperii, ossia nell'esercizio di prerogative sovrane, mentre tutti gli atti iure gestionis, ossia di natura privata e commerciale, ne restano sottratti e possono essere sottoposti ad esecuzione coattiva in giudizio.
Il problema sembrerebbe risolto, ma come spesso accade la soluzione pratica è molto più difficile da trovare di quanto la teoria lasci supporre.
In effetti, permane ancor oggi, sul piano internazionale, massima confusione sul come classificare le azioni statali all'interno delle due diverse categorie degli atti iure imperii e iure gestionis.
Sono due le classificazioni possibili.
La prima fa perno sull'idea dello scopo dell'atto, affermando che a prescindere da quella che potrebbe essere la natura strettamente giuridica dell'atto statale, l'immunità spetta a qualsiasi atto dello Stato che persegua uno scopo di natura pubblica, poiché tale scopo farebbe rientrare l'atto nella categoria iure imperii.
Di tutt'altro avviso è un'altra corrente giurisprudenziale, per la quale la suddivisione degli atti statali in iure imperii e iure gestionis dovrebbe fare perno strettamente sulla natura giuridica dell'atto stesso, natura che può essere di carattere sovrano o privatistico, senza alcuna considerazione per lo scopo dell'atto posto in essere.
In un argomento ancora così dibattuto, non possiamo fare null'altro che qualche personale considerazione, che ci spinge a preferire la seconda delle due possibili interpretazioni fornite, con andamento altalenante, dalla giurisprudenza.
Infatti, l'adozione del primo dei parametri presi in considerazione, quello dello scopo dell'atto, può sembrare solo apparentemente risolutoria. In realtà, tutte le attività dello Stato hanno comunque di mira il raggiungimento di un fine pubblicistico, ed accettare una simile interpretazione non significherebbe altro che estendere di nuovo in maniera incontrollata l'ampiezza delle immunità statali, con gravissimi pregiudizi per gli investitori privati. Del resto, appare poco ragionevole prospettare che uno Stato possa, dopo aver svolto sul mercato internazionale un'attività iure privatorum, sottrarne ogni valutazione ai giudici di altri Stati. Ciò risponde, del resto, alla necessità di garantire la correttezza delle relazioni che caratterizzano il mercato medesimo, per impedire che si verifichi la situazione paradossale in cui uno Stato si possa avvantaggiare dalla partecipazione ad esso, senza tuttavia correrne i correlati rischi, acquistando così nei confronti degli altri operatori una posizione di assoluto privilegio. Quando uno Stato sceglie di ricorrere al debito pubblico e di agire alla stregua di un soggetto privato, non dovrebbero quindi assumere rilevanza le ragioni, anche di stampo pubblicistico, che possono guidare le sue scelte nello svolgimento del rapporto obbligatorio. Bisognerebbe piuttosto tener conto solo ed esclusivamente della natura degli atti posti in essere.
Questa interpretazione risponde non soltanto all'esigenza degli operatori privati che agiscono sui mercati internazionali di vedere garantiti in maniera seria ed efficace i propri diritti, ma anche all'esigenza degli Stati stessi di rendersi competitivi, in un sistema economico ormai unitario e globale, e di attirare in tal modo la preziosa risorsa degli investimenti esteri.
Anche in un quadro di cooperazione "allargata", per lo sviluppo economico dei Paesi poveri risulta sempre più importante la componente dell'investimento privato diretto, vista la scarsa efficacia ed i devastanti effetti sul debito pubblico della cooperazione "classica" intergovernativa.
Con una storica Ordinanza Cautelare emessa dal Tribunale di Roma in data 22 Luglio 2002, anche la nostra giurisprudenza sembrava essersi attestata su questa ragionevole interpretazione della distinzione tra atti iure imperii e iure gestionis, ammettendo addirittura, per la prima volta, la natura "privata" dell'emissione di titoli obbligazionari da parte degli Stati, poiché fondata sull'utilizzo di strumenti propri del mercato finanziario internazionale.
Questa visione dei rapporti economici Stato - privati avrebbe potuto segnare l'inizio di un dinamismo nuovo del nostro Paese nel settore dell'investimento privato estero, con una proficua, giusta estensione delle garanzie degli operatori privati nei loro rapporti con Ordinamenti sovrani. Di più, avrebbe potuto costituire un'autorevole esempio da imitare per Ordinamenti giuridici meno all'avanguardia sul piano della tutela del settore privato.
Purtroppo, il sogno è stato breve: la successiva, recente sentenza di merito dello stesso Tribunale di Roma nel medesimo caso ha revocato la precedente Ordinanza, basandosi sull'opposto, restrittivo criterio dello scopo nella cruciale distinzione tra atti iure imperii e iure gestionis.
Si tratta di una "schizofrenia" giurisprudenziale purtroppo non rara nella nostra Italia, ma che certo non aiuta a fare chiarezza su un problema così delicato ed importante.
Del resto, nel campo del Diritto Internazionale, nel quale la lenta evoluzione delle consuetudini e degli usi riveste una così grande importanza, non si può pretendere di risolvere in via definitiva problemi di recente produzione, in quanto tali suscettibili di un'evoluzione diversa da quelle prospettate.
Vista la confusione attuale, non si può far altro che consigliare vivamente agli operatori privati, imprenditori e tecnici che spesso mettono se stessi direttamente in gioco senza ottenere in cambio idonee garanzie, un'attenta negoziazione dei contratti conclusi con enti pubblici e sovrani, specie per quanto concerne la previsione di efficaci meccanismi arbitrali, come l'ICSID o le regole UNCITRAL, che sottraggano ogni eventuale controversia a quella che spesso è la "trappola" delle giurisdizioni statali.
Ad oggi, infatti, la decisione dei giudici non può che dipendere, in mancanza di indicazioni più chiare e vincolanti, dalla loro personale sensibilità nei confronti dell'uno o dell'altro dei criteri menzionati. Una decisione particolarmente difficoltosa da prendere, perché ricca di implicazioni e conseguenze non soltanto sul piano strettamente giuridico, ma soprattutto su un piano politico e diplomatico, e incidente su realtà che appaiono spesso particolarmente dolorose anche sul piano umano. 
Proprio in quest'ottica, sarebbe auspicabile quanto meno una presa di posizione, riguardo al problema generale dell'ammissibilità di misure esecutive su beni appartenenti a Stati esteri, da parte delle Istituzioni Internazionali competenti che, seppur non risolutiva, cerchi almeno di fare un po' di luce su una questione spinosa e di rendere meno difficoltoso il lavoro delle giurisdizioni nazionali.